Un avvenire disperato

Se sei felice non preoccuparti: passerà.

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“Tugno, col bene che ti voglio”

Non voglio essere sentimentale, d’altronde lo sai che sono Freddo mica per niente.
Il mio cuore di pietra non può permettersi una cosa del genere, tipo ricordare l’ultima volta che ci siamo parlati, una decina di giorni fa, quando fantasticavamo come sempre di aprire un baretto sulla spiaggia a Lido di Spina. Tu avresti avuto casa distante 50 metri, io avrei avuto il mare, e chissà chi altri del nostro vecchio team a farci compagnia.

Non posso nemmeno dirti che un po’ mi hai fatto piangere, ma proprio poco eh, che non vorrei la mia nomea da duro ne risentisse.
Bestia, Tugno, stavolta la boiata l’hai fatta bella grossa, ma ti perdoniamo come sempre, come facciamo ad essere arrabbiati con te? Oh, che poi qualcuno ha saltato un viaggio, qualcun altro non è riuscito a dormire per due giorni, qualcun altro ancora ha pianto come mai prima nella vita.
Ma fa niente Tugno, ti abbiamo perdonato quelle camicie che solo tu potevi mettere andandone fiero, o qualche tuo tatuaggio un attimo discutibile, ci siamo abituati.

Facevamo e dicevamo spesso cose assurde, ma la cosa più assurda di tutte è successa ieri quando io, Jarpo e Maro ci siamo seduti a un tavolo per scrivere un pensiero che ti ricordasse da mandare a qualche giornale. Cazzo, Tugno, quante risate che ci saremmo fatti ricordando assieme le tue boiate.
L’ultima cosa assurda avverrà fra qualche giorno, quando manterremo la promessa di venire a Lido tutti assieme, come dovevamo fare da anni, per abbracciarti forte.

“Bestia, regaz, che roba!”

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Siamo fatti delle fantasie degli altri

Quando si è soli, un pomeriggio in cui vorresti fare tanto ma che alla fine non fai nulla può essere lunghissimo. Poi arrivi alla sera e ti chiedi come sia possibile che ore tanto noiose siano passate così in fretta.
Credo lo pensi sempre anche Ashley. Ashley ha 28 anni, è nata a Orlando nel 1989, porta gli occhiali e pesa centoventiquattro chili. Sta per sei ore seduta in un gabbiotto di vetro, all’ingresso di un immenso parco divertimenti. Uno di quelli “World Famous”, come direbbe lei con un accento strascicato. Abita a circa 10 chilometri dal parco: quando stacca saluta Stanley e il suo distintivo, mentre con passo pesante raggiunge il pulmino. Poi il pullman di linea.

Quando è sdraiata sul suo divano sfondato, con la luce blu della televisione che riverbera sul suo viso occhialuto, Ashley pensa che domani sarà esattamente come oggi. Predice anche il momento esatto in cui Kurt, il gatto, le si getterà sulla pancia per dormire. Tre, due, uno… eccolo qui.
Sul tavolo ci sono ancora residui di patatine. Sono lì da domenica, da quando ha fatto la maratona di House of Cards. Quando si è seduta lì alle undici del mattino e si è alzata alle otto di sera. Poi ha riscaldato i maccheroni al formaggio, ha guardato Il Diavolo veste Prada per la quarta volta e poi è andata a dormire. Forse però non era domenica, la pasta al formaggio. Mi sa che era sabato. Oppure l’ha fatto due volte di fila, ma non importa.

Ashley non ha molti amici. Bhe, per essere completamente sinceri, non ne ha di veri. Kate si è sposata tre anni fa ed è andata a vivere ad Atlanta. “Ci vedremo spesso, lo prometto”. Poi è diventato “ci sentiamo, dai, ti telefono tutti i weekend!”. Ashley ha saputo da Facebook che Kate è diventata mamma. Due volte. Ogni tanto si sentono, ma i doveri di mamma chiamano.
Ha avuto un ragazzo, Matt. Oh, Matt, che ragazzo d’oro era. Sono stati assieme quattro mesi, poi però Katryn dalla Danimarca se l’è portato via. Per la precisione, prima l’ha portato dietro uno dei bagni pubblici e gli ha preso il cazzo in bocca, poi l’ha portato via. Dettagli.

Ashley fa avanti e indietro tra il gabbiotto con il sedile rinforzato e le briciole di patatine alla paprika del suo tavolino da sette anni.
Tutti i giorni, mentre fa colazione, tra un biscotto e l’altro fissa sempre il portacoltelli e quella lama affilata che brilla alla luce del primo mattino della Florida.

“Dai, povera!”, mi dici tirandomi un buffetto sul braccio.
La fila si è quasi esaurita, tra poco tocca a noi. Davanti abbiamo una coppia che passa i biglietti alla ragazza nel gabbiotto. L’impiegata è visibilmente sovrappeso, porta gli occhiali. Sul taschino ha una targhetta che dice: Ashley, Orlando (FL).
“Ashley?”, le dice la cliente mentre ritira la ricevuta. “Bel nome”.
L’addetta del parco sorride mentre ci strappa i biglietti e ci fa entrare.
“Non è colpa mia se mi annoio in coda, poi mi invento le storie”, ti rispondo tardivamente.
“Eh, ma sono sempre tristi”
“Bhe, cara mia, è il mondo che è triste. Poi magari anche noi siamo solo una storia inventata da qualcuno che si sente solo e non sa che fare”
“Sì, certo. Cammina, scemo”

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IT non è quello che vi hanno fatto vedere

Ci sono volute due settimane prima che mi decidessi, perché ci sono due argomenti a cui tengo particolarmente: il cinema e IT.
Partiamo dal primo: il film di Muschietti non è un bel film, almeno secondo il mio modesto parere. Cercando di lasciare fuori il libro – di cui parlerò tra poco – chi ha deciso di trasporre l’opera di King ha fatto un’operazione molto furba: puntare tutto su un target che è praticamente coetaneo dei protagonisti. Quando sono andato in sala, per tre quarti era piena di quattordicenni urlanti: i maschi che ridevano e tenevano la mano alle femmine, le femmine che si tenevano le mani sugli occhi e urlavano a ogni scena di “paura”.

Ecco, parliamo della “paura” di questo film. Anzi, forse no, perché la paura non c’è. Inutile fare uscire i trailer con la scritta “dal libro più terrificante di Stephen King”: primo perché King, e vomiterò le budella a furia di ripeterlo, non scrive horror (è sicuramente un elemento fondamentale della sua narrativa, ma non è quello fondante), secondo perché IT non è il libro più terrificante di Stephen King. Ma come possono saperlo i quattordicenni? Appunto, non lo sanno.
L’altra operazione furbetta che a molti è sfuggita – o che è passata totalmente inosservata, vista la recente assuefazione – è stato spostare l’ambientazione del romanzo originale dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’80. Ah, gli anni ’80. Quei meravigliosi anni portati alla ribalta dal magnifico Stranger Things l’anno scorso, diventati di colpo mainstream, con protagonista il giovane Finn Wolfhard che incredibilmente è protagonista anche qui? Con il personaggio tra l’altro più simpatico dell’intero film? Che strano.

E adesso mi tocca parlare di un pezzo di cuore, quel libro che volenti o nolenti ti cambia la vita quando lo leggi. Provai a leggerlo verso i quindici anni, senza successo. Capii che non si può leggere un libro così prima di una certa età quando lo finii tutto d’un fiato a diciannove, durante l’estate della maturità.
IT non è un libro su un fottuto pagliaccio assassino, mettiamolo subito in chiaro per chi non l’ha letto: è un libro sull’amicizia, sui legami che instauriamo da ragazzini, che sono i più importanti che ci portiamo dietro per tutta la vita. E soprattutto è una gigantesca metafora sul terrore del diventare grandi. Di diventare come il proprio padre violento, come la propria madre obesa e troppo protettiva, come quegli altri ragazzi più grandi che ti incidono il loro nome sulla pancia con un coltello arrugginito. E di come, una volta diventati adulti, ci si dimentichi di com’è bello essere bambini vivendo quell’età coi propri amici, di come sia terrificante e pauroso essere adulti.
Qui entra in gioco il paragone con il film. Voglio precisare una cosa: non voglio che il film sia identico al libro, perché non avrebbe senso e perché, nel caso di questo libro, è praticamente impossibile impostare un’operazione del genere. Ma se chiami la pellicola come il libro, e ti vanti di averla tratta dal “libro più terrificante di King” (è l’ultima volta che lo scrivo, mi fa male farlo), almeno il senso, il messaggio, la metafora la devi fare necessariamente passare. Perché altrimenti, parliamoci chiaro, si fosse intitolato “Pennywise” o “Il pagliaccio pauroso che uccide i bambini” sarebbe stata la stessa cosa. Anzi, meglio. Avrei evitato di spendere dieci euro.

Lo sfogo viene dal cuore, perché mi fa male che chi lo vede – escludendo quella fascia d’età di cui parlavo poc’anzi, troppo giovane per poter capire davvero il libro – associ questa roba alla storia di King, che per chi dà un’importanza vitale alla propria infanzia, ai propri amici, ai propri sogni, è come se fosse la Bibbia.
Quello che mi dà più fastidio è che IT sia diventato mainstream: Halloween e altre feste in discoteca a tema che ho visto nei giorni scorsi, devo essere sincero, mi hanno fatto venire una malinconia incredibile per i Perdenti. Come se fossero delle persone vere.
E questo mi ha fatto capire che quella storia e tutte le emozioni che mi ha dato allora e chi mi dà ancora dodici anni dopo averla letta non me le porterà via nessuno.

Perché io e Bill “Tartaglia” Denbrough batteremo sempre il Diavolo in sella alla nostra Silver, pensando agli occhi profondi e malinconici di Beverly Marsh.
E perché, alla faccia dei coglioni che hanno fatto questo film, ripenserò ancora a questo romanzo di formazione anche fra vent’anni, quando quasi ricorderò la mia infanzia e gli amici con cui l’ho vissuta.

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Forse ci siamo arresi

La vidi seduta nella solita posizione, a suo agio, su una delle sedie fuori dal bar. La vedevo un secondo sì e l’altro no, intervallata dalla massa di persone che andava e veniva sul corso, in cerca di un posto dove bersi il solito Spritz annacquato da otto euro.
Aveva una maglietta semplice, i jeans un po’ strappati sulle ginocchia e stava leggendo qualcosa sul cellulare: come anni fa, aveva l’espressione corrucciata di quando era concentrata, come quando studiava. O fingeva di farlo, perlomeno.
Mi avvicinai e la salutai con la solita battuta che capivamo solo noi due. Mi sorrise a trentadue denti, mi insultò con una formula vecchia di quasi vent’anni e ci abbracciamo fugacemente. In tutti questi anni non l’avevo mai collegata a sogni un po’ sporchi, una di quelle fantasticherie che noi maschietti facciamo spesso, anche con chi non conosciamo. Però ogni tanto ci avevo pensato, e mi ero anche immaginato le grasse risate che ci saremmo fatti solo a immaginarcelo assieme: mi venne in mente quando i nostri due corpi coperti da due magliette estive e basta entrarono in contatto, le sue morbide curve che si schiacciavano contro il mio petto scarno.

“Hai cambiato di nuovo lavoro?”, le chiesi, mentre sorseggiavo lo Spritz annacquato. Ovviamente mi ero fatto fregare, ma che importava?
“Sì, mi ero rotta. Ora sono dall’altra parte della città, un lavoro stagionale, poi si vedrà.”
Mi piaceva perché era come me, in fin dei conti non gliene fregava un cazzo. Aveva sempre una parola brutta per tutto quello che le capitava, ma lo faceva ridendo. Spesso. Ogni tanto lo diceva come battuta, ma gli occhi dicevano tutt’altro. Penso che capiti spesso anche a me.
“Le vacanze?”
“Uno schifo. Le tue?”
Le mie meglio, grazie. Oddio, forse. Alla fine tra di noi usciva sempre un pessimismo che divertiva entrambi. Non ci prendevamo mai sul serio, anche se ci credevamo. In fondo, la vita era una merda, no?

Ci sedemmo sul muretto che divideva la via dal fiumiciattolo che puzzava di morte poco più sotto. Il leggero vento estivo le scompigliò i capelli più lunghi del solito.
Finimmo a parlare dei vecchi compagni, come succedeva sempre. Io mi vedevo ancora con qualcuno, lei pure.
“Ah, quindi si è sposata?”
“Sì, hanno anche una figlia ora. Pensa te.”
Già, pensa. Finivamo sempre a parlare del tempo. Di come io e lei avessimo ormai trent’anni ma eravamo uguali identici a quando ci eravamo conosciuti, quasi diciassette anni fa.
“Diciassette? Mi prendi per il culo?” disse ridacchiando, finendo la sua birra.
No, non la prendevo per il culo. Il calcolo era pure facile.
“Come mai noi siamo ancora qui? Voglio dire, qui così, in questo modo, ancora liberi da impegni da adulti.”
Si fece seria per un attimo, il modo in cui si fanno serie le persone che ridono spesso: cambiando completamente l’espressione. Le rughe ai lati della bocca si rilassarono, si guardò per un attimo i piedi, poi il fondo della bottiglia marrone scuro della birra ormai finita.
Poi mi guardò negli occhi, con una faccia che conoscevo fin troppo bene. Era esattamente quella che ogni tanto vedevo nelle specchio tutte le mattine.
“Forse ci siamo arresi. O forse è tutto il contrario. Chi lo sa.”
Già, pensai. Chi cazzo lo sa.

Si fece tardi. Si fa sempre tardi, no? Ci scambiammo ancora qualche aneddoto che ci dicevamo spesso – in diciassette anni, quante volte li avremo ripetuti? – e poi ci abbracciammo a lungo. Forse qualche secondo di troppo, perché la natura si fece sentire e dovetti staccarmi da lei prima di incappare in domande scomode. Forse se ne accorse, perché mi diede un piccolo pugno sulla spalla, sorridendo.
Mi insultò di nuovo scherzosamente, e io ricambiai. Se ne andò tra la folla del venerdì sera, con quel passo da maschiaccio che tanto mi piaceva.

L’ho rivista questa sera, sul molo. Ero seduto a uno dei tavolini del bar d’angolo, quello con la vista sul mare. Stavo finendo il mio bicchiere quando mi sono accorto di lei: ho capito chi era solo quando si è girata, perché di spalle non l’avevo riconosciuta, non con quel bambino in braccio.
Sono rimasto con il bicchiere in mano a mezz’aria, fino a quando è arrivata un’altra ragazza che l’ha salutata e che ha preso in carico il bambino, mettendoselo sulle spalle. Se ne sono andate ridendo.
Sono ancora seduto qui, quasi al buio, sperando che per lei vada tutto bene. Non so come si diventi adulti, e fino a qualche tempo fa eravamo almeno in due a non saperlo. Non so cosa pensare di quello che ho visto, ma forse sono rimasto l’unico ignaro di come ci si riesca, di come si possa mettere in un angolo quello che sei da sempre e diventare qualcosa di diverso.
Ho finito le sigarette, il bicchiere è vuoto da tempo, per la strada cominciano ad arrivare i turisti. C’è una festa in piazza, fra poco. Mi alzo e vado dalla parte opposta.

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Mentre arriva un temporale

La vedo che mi guarda e muove la bocca. Non la sento.
«…acendo?», sono le uniche lettere che mi arrivano all’orecchio liberato dagli auricolari.
«Come, signora?»
«Cosa stai facendo?», mi richiede col sorriso. È seduta sulla panchina poco distante, ha al guinzaglio un cane.
Non so se mi va di risponderle, ma lo faccio lo stesso.
«Solo qualche foto. Sono solo curioso»
Fa un cenno con la testa, mi sorride di nuovo. Poi accarezza il suo cane e torna a guardare l’orizzonte. In lontananza, si sentono i tuoni.
Torno a guardare la scalinata di mattoni rossi dove una volta si veniva a fumare, all’intervallo. Io non fumavo, ma ogni tanto tornavo a casa che sapevo di ciminiera.
Ho in mano un tipo di cellulare che quando venivo a sedermi qui neanche esisteva. Ne avevo uno molto più piccolo: lo schermo era grande come un pollice messo in orizzontale. È strana la storia dei cellulari: prima dei mattoni che ci potevi tirare su un muretto, poi sempre più piccoli, ora degli schermi televisivi. Bho.

Comunque mentre si veniva qui a fumare, si usava lo sbianchetto per scrivere sui mattoni rossi. Adesso magari lo spiego meglio alla signora, ma mi accorgo che se n’è andata. Ovviamente non ci sono più quelle che abbiamo lasciato noi, lavate via dalla pioggia e dagli anni. Ce ne sono altre, sempre stupide e melense. Tvb. Tvumdb. Sti cazzi, però era divertente.
Mi chiedo quanti di quelli che si sono giurati amicizia e amore per l’eternità si sentano ancora.
Mentre sto per inforcare di nuovo la bicicletta, mi accorgo della ragazza seduta in penombra, vicino al corridoio della palestra. Quante volte avrò fatto quel corridoio? E chi lo sa.
Si accorge anche lei di me, e la saluto. Mi sorride. Sta fumando. Mi avvicino e mi invita a farle compagnia.
«Sei venuto a fare un giro al parco?»
«Sì. Cioè, venivo a scuola qui»
«Che culo»
La guarda un attimo, non so se sta scherzando o dicendo sul serio. Sorrido.
«Sei vecchio, quindi»
«Dipende. Rispetto a te, sicuramente sì»
Lei si stringe nelle spalle. Faccio anche io un tiro e mi alzo per andarmene.
«Un giorno, forse, tornerai qui anche tu a passeggiare», le dico.
«Non credo proprio»
Le sorrido e la saluto. Lei scuote la testa e alza una mano.

In fondo alla via c’è un bar. Fuori, due tavoli e tre anziani che parlano del Milan e dell’Inter.
Mi fermo, lego la bici ed entro. Mi guardano strano.
«Prendi qualcosa?»
Non lo so. Rispondo nella maniera più semplice. «Quello che hanno preso loro», dico, indicando gli anziani di fuori.
Il barista mi guarda e ride. «Cosa ci fai qui?»
«È la malinconia. Credo.»
Mi porta quello che ho ordinato. Lo bevo tutto d’un fiato. Mi brucia le budella, ma non me ne frega niente.
Fuori i tuoni si fanno sempre più intensi. Uno degli anziani che sta sproloquiando mi vede.
«Non sei un po’ troppo giovane per stare qui?»
«Dipende», gli rispondo.
Mi rimetto sulla strada, il vento freddo mi fende la faccia.
«Rispetto a voi, sicuramente sì.»

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I soli del sabato mattina

Il ragazzo dietro il bancone ha sempre un sorriso triste.
Sempre lì da anni, ogni volta che cerco un libro lui c’è, con quel sorriso lì. Saluta me, un’anziana che chiede se stanno chiudendo, ma no si figuri signora, si prenda il suo tempo. Sempre col sorriso triste.

Come tutte le volte ci metto molto a scegliere e c’è un via vai di poche persone, ma noto che sono sempre tutte uguali: i soli del sabato mattina.
Hanno tutti la barba, vestiti poco curati, scarpe un po’ rovinate. Si tuffano nelle trame dei libri per non doversi incrociare, si immaginano un weekend di fuoco popolato di nuove parole di scrittori già letti o sconosciuti.
Nessuno di loro ha mai la fede al dito. Nessuno di loro ha qualcuno che lo ha accompagnato. C’è solo una Wolkswagen verde pallido fuori, nel primo sole primaverile.

Ho scelto. Il sorriso triste è sempre lì. Infila il libro in una busta di carta anonima, che mi ricorda quelle che usano negli States per l’alcol.
«Mi devo vergognare di McCarthy?», commento indicando la busta.
Il ragazzo fa sempre quel sorriso. Figurati, mi dice. Sono dodici euro. Mentre aspetto il resto uno dei soli si mette in fila dietro di me.
Saluto il ragazzo della libreria che rivedrò tra qualche mese, e avrà sempre quella faccia. Sbircio il tipo in fila, sta usando il cellulare. Ovviamente sta guardando un’app di scommesse. Altach-Mattersburg? 1 fisso, direi.

Poi mi incammino verso un altro weekend di fuoco.
È la felicità dei soli, penso.

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Il venerdì pomeriggio

Il venerdì pomeriggio è come la strada che ti porta al mare, e poi piove.
Il venerdì pomeriggio è la birra delle sei e poi ti viene mal di stomaco.
Il venerdì pomeriggio è una promessa non mantenuta.

Il venerdì pomeriggio è il tuo sguardo segreto. Poi sorridi e distogli lo sguardo.
Il venerdì pomeriggio è quando hai fame, acquolina in bocca, cuoci un hamburger e poi lo bruci.
Il venerdì pomeriggio è l’attesa della partita che vale uno Scudetto e poi perdi.

Il venerdì pomeriggio è mentre vai in stazione per un viaggio che aspetti da tanto e poi hanno soppresso il treno.
Il venerdì pomeriggio è un vestito bordeaux d’estate, e poi ci sono cinque gradi sotto zero.
Il venerdì pomeriggio è la palla che entra in porta e non ti danno gol.

Il venerdì pomeriggio è un lunedì mattina che stava solo scherzando.

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Stare seduti su un marciapiede in giugno

«Ci siamo io e lei seduti su un marciapiede, una maglietta da calcio sudata, due biciclette, suo padre che ci saluta. Parliamo del mare.
Quella volta a quella festa, loro che mi guardano e ridono, e lei che mi lascia il suo numero di cellulare. Perché non si sa mai.
Poi salgo le scale dipinte di giallo, quelle in cemento, odore di fumogeno nell’aria. La figura di mio padre, e poi lo stadio gigantesco e io così piccolo. Finalmente so cosa sono le vertigini.
All’improvviso sono su un letto, è buio e lei è sopra di me: si sistema i capelli, fa una coda di cavallo. Si toglie i braccialetti e li appoggia sul tavolino. Fanno tanto rumore.
Un pallone da basket, poi uno da calcio. Poi ancora calcio. Odore di sudore, fa caldo. Poi c’è odore di casa, di sabato pomeriggio. Fuori comincia a nevicare.
Poi sono commosso, poi sono euforico, poi arrabbiato, poi stanco. Poi tanto stanco. Intorno a me c’è un paesaggio deserto, la strada è vuota, il vento mi passa tra i capelli. Starnutisco. Starnutisco sempre. L’ho sempre fatto.»

Si ferma un secondo. Il suo interlocutore picchietta la penna sul taccuino.

«Mi chiedevo se tutto questo ha un senso. O se è tutto inutilmente chiuso nella mia testa, tanto poi scomparirà, come è già successo e succederà.»

L’uomo con cui sta parlando scrive qualcosa su un foglio, lo strappa.

«Certo che ha un senso. Eccolo qui.»

Il paziente si alza dal lettino e prende il foglio. E

si sveglia tirandosi su di colpo dal letto. Le lenzuola leggere sono sudate, lui ha la fronte imperlata.
Si stropiccia gli occhi e si alza. Va alla finestra e guarda fuori. La polvere è ancora lì. Ovviamente non c’è nessuna impronta, in nessuna direzione. Devono essere almeno tre giorni che non esce.
Si guarda allo specchio e si rimette a contare le costole. Stamattina ne riesce a contare una in più. Brutto segno. 
Non aggiorna più nemmeno il diario. Se ne è fatto una ragione, non lo leggerà mai nessuno. Non dopo che l’ultima volta che ha provato a raccogliere la pioggia, una delle gocce cadute dal cielo ha bucato la bottiglia di plastica. 
Si sistema sulla poltrona e si chiede se sia rimasto qualcuno. Magari anche solo uno, che in quel momento sta pensando la stessa cosa. Magari pensa proprio a lui.
C’è un pezzo di carta incorniciato di fianco alla poltrona, con sopra scritta una frase. Non si ricorda chi l’abbia detta, e quasi ride per il paradosso.

I ricordi sono qualcosa che abbiamo o qualcosa che abbiamo perso per sempre?

La fissa come fa tutti i giorni. Fuori qualcosa urla il suo verso stridulo dal bosco. Ormai non ci fa nemmeno più caso.
Richiude per un attimo gli occhi e il verso si trasforma nel tintinnio di braccialetti pesanti. Per un piccolissimo momento sorride. Come fece quando aveva il culo su un marciapiede che ribolliva in giugno, mentre parlava del mare.

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Non lo so

Il ghiaccio cadde dentro al bicchiere con il suo classico tintinnio.
Il Pacifico era come al solito affollato, e James stava pensando a quanto gli sarebbe piaciuto essere sulla sua branda in veranda a dormire, quando lei entrò nel bar.
Non la notò subito perché stava aiutando Robertson ad andare in bagno: probabilmente a vomitare l’anima, ma magari con un po’ di fortuna non lo avrebbe fatto. L’ultima volta James avrebbe voluto chiamare un esorcista.
La vide meglio quando si risistemò dietro al bancone, dando un occhio ai suoi clienti: molti erano sempre gli stessi, altri si vedevano qualche volta, alcuni erano nuovi. Tra cui la ragazza, che ora lo stava guardando. Lui accennò un sorriso, poi tornò a pulire il ruvido legno del bancone.
«Mi fai un gin tonic?»
Quando lui rialzò la testa, i suoi occhi annegarono in quelli di lei.
«Certo, arriva subito»
Cominciò così, con l’alcol. Poi arrivarono i sogni. Infine, i rimpianti.

«Come mai “Pacifico”?»
«È una lunga storia»
«Sentiamo. Ho tempo»
Erano rimasti in pochi nel bar, l’ora era tarda e si avvicinava la chiusura. Kate tornava spesso. A volte con amici, a volte con la sua migliore amica, a volte con tutti più il fidanzato.
«Bhe, è sempre stato il mio sogno. Vivere su un’isola del Pacifico. Sole, sempre estate, l’oceano. Volevo aprire un bar. Poi l’ho aperto qui. Strana la vita, eh?»
Entrambi guardarono fuori dalla finestra come se fosse un riflesso incondizionato. Lui si grattò il naso, lei sospirò.
«E allora sentiamo, dove precisamente ti sarebbe piaciuto vivere?»
«Alle Hawaii. Conosci?»
Lei finì il suo gin tonic.
«Ne ho sentito parlare.»
Lui si mise a ridire e la prese in giro. Lei fece finta di offendersi. Succedeva sempre così. Quando lei se ne andò, qualche minuto dopo, fu la volta di James sospirare.

Quando si videro qualche sera dopo, James si prese un momento per illustrarle le Hawaii. I tablet funzionavano ancora, nonostante la grave crisi che aveva colpito la Colonia qualche mese prima. Il suo era ormai malconcio, ma con il proiettore in 7k riusciva ancora a fare la sua figura.
La portò in fondo al locale, che ormai si stava svuotando, dove una parete bianca si colorò con i toni accesi di Oahu.
«E questa era Honolulu, la capitale», le disse, mostrandole una veduta area della città. «Una volta erano così, le città. Io ero piccolo, non so se tu sei riuscita mai a vederne una intera»
Lei scosse la testa, rimanendo con gli occhi fissi sul muro. Poi fu la volta delle spiagge, del blu, dei pesci, della vegetazione.
«Ecco, qui la polvere non c’era», disse lui sarcastico.
«Scemo»
La lezione finì, era di nuovo tardi; è sempre tardi quando meno ce lo aspettiamo. Quello non era mai cambiato e probabilmente non sarebbe cambiato mai.
La accompagnò all’ingresso, fuori c’era qualcuno che la aspettava con il motore acceso.
«È un tipo fortunato», disse James indicando l’esterno.
«Ti piace la sua macchina?»
Lui sorrise e non disse niente. L’innocenza e il pudore che Kate dimostrava ma che non aveva era totalmente disarmante. E tremendamente attraente.

Passarono i giorni. Le settimane. I mesi.
Una sera rimasero solo loro due, talmente si era fatto tardi. Stavano parlando di viaggi, di vecchi posti che probabilmente non avrebbero mai visto, tantomeno assieme. Con il proiettore viaggiarono dal Sudafrica ai fiordi norvegesi, passando per Central Park e la Foresta Amazzonica.
«Oddio, guarda l’ora!», disse Kate indicando il vecchio orologio da polso, probabilmente ereditato dalla sua bisnonna. «Ti aiuto a pulire»
Si divertirono anche a fare quello. Fu quando stavano scherzando con il moccio che si avvicinarono. Forse troppo. Lui le sistemò i capelli e pensò che si meritasse quel momento, per tutta la vita aveva aspettato una situazione del genere, una donna così. Ma non pensiamo tutti di meritare qualcosa di meglio? Per lei sarebbe stato meglio? Per il loro futuro, quello di tutti gli altri? Era giusto abbandonarsi a quell’atto di puro egoismo?
Tutto questo passò nella mente di James in un nanosecondo, e lei già stava ridendo ritirandogli il moccio addosso. Finirono di pulire e lei se ne andò, guardandolo mentre scivolava nell’innaturale luce artificiale che illuminava il parcheggio, con quello sguardo che lo faceva sentire in paradiso e all’inferno nello stesso momento.
Quando richiuse la porta, per poco non gli venne un infarto vedendo un’ombra sul fondo del locale venirgli incontro barcollando.
«Dio mio, Robertson, da quanto sei qui?!»
«Mmmmh… credo di… di essere svenuto un attimo…»
Lo prese sottobraccio e lo accompagnò all’uscita.
«È molto bella, eh?», chiese l’ubriacone al padrone del bar.
«Se te ne sei accorto anche tu in queste condizioni, direi proprio di sì»
Lo lasciò giù dai gradini dell’ingresso, dandogli due pacche sulle spalle. Stava risalendo nel locale, quando la voce di Robertson ruppe il sinistro silenzio della notte.
«I sogni sono soltanto sogni, vecchio mio»
James si bloccò e si girò verso il suo cliente più affezionato.
«E che cosa vorrebbe dire?»
Robertson sorrise come non faceva da tempo.
«Non lo so», disse con un filo di voce, prima di scomparire nelle tenebre.

«Cos’è quella faccia?»
Robertson lo interrogò da dietro il bancone. Erano passati mesi ed era arrivato l’anniversario del Giorno dell’Arrivo. Andrew Albert Robertson lo stava festeggiando al bar, in giacca e cravatta, pettinato e con la Stella sul petto. Era stato uno dei primi ad arrivare, più di cinquant’anni prima.
«Ah… se n’è andata, vero?»
Quello era l’unico giorno in cui Robertson non beveva. Una volta, qualche anno prima, James gli aveva chiesto come mai bevesse come una spugna per trecentosessantaquattro giorni all’anno (almeno, del vecchio calendario) e non lo facesse mai nel Giorno dell’Arrivo. Il Giorno dell’Arrivo è l’unico momento che non voglio dimenticare, gli aveva risposto. Fine della discussione.
«Fa parte del Programma Due? Quello per le coppie?»
James posò il boccale che stava asciugando.
«L’acqua tonica ti fa bene, a quanto vedo. Il tuo sesto senso fa scintille»
«Mi dispiace, vecchio mio», disse alzando il bicchiere di tonica, facendo brindisi con qualcuno di invisibile.
Il Programma Due prevedeva un Viaggio ogni due anni per coppie al di sotto dei trent’anni. Se eri più vecchio o da solo, ti toccava rimanere lì.
«È passata a salutarti, almeno?»
James chiuse gli occhi e fece un bel respiro.
«Sì, è passata»
«E…»
«E niente, Robertson, ci siamo salutati come due persone normali. Era commossa, ma lo sarei stato anche io al posto suo. Guarda dov’è andata», disse indicando il cielo blu fuori dall’ampia finestra del locale. Evitò di sottolineare come non si sarebbe mai dimenticato il modo in cui Kate lo guardò prima di uscire dalla porta, per sempre.
«Ok, scusa se ho toccato un nervo scoperto, vecchio mio. E chiamami Andy, da quanto ci conosciamo?»
«Hai ragione, Andy». Gli sorrise e gli strinse lievemente una spalla. Uscì dal Pacifico cercando una boccata d’aria. La leggera brezza alimentata dai giganteschi ventilatori posizionati sulla cupola gli scompigliarono i capelli. Stette lì nel patio per un po’ a guardare in cielo, quell’enorme palla verde-azzurra che li guardava trecentottantaquattro mila chilometri più in là. Pensò a Kate e a dove avesse deciso di andare a vivere, provando a risollevare le sorti di un intero pianeta quasi inabitabile. Forse tornerà, pensò in un impeto di egoismo che poco dopo si vergognò di avere provato.
I passi pesanti di Robertson si avvicinarono, fino a fermarsi di fianco a lui.
«È bellissima, vecchio mio, non è vero?»
James ebbe un deja-vu, ma non ci fece caso.
«Già»
«Pensi che la rivedrai mai?»
James pensò al blu intenso delle Hawaii e ai grandi occhi di Kate che vi si riflettevano dentro.
«Non lo so», rispose con mezzo sorriso.
Fuori dalla cupola, la polvere lunare vi si infiltrava piano ma senza sosta, un granello alla volta.

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Arrivano

Sono seduti a pochi metri dal bagnasciuga. La sabbia si incastra nascondendosi tra le dita dei piedi.
Il mare ha lo stesso colore del cielo: il grigio metallo è ormai il colore dominante.
«Quanto ti manca fare un bagno?», chiede lei con la testa appoggiata alla sua spalla.
«Un po’», le risponde lui, sorridendo a metà.
Buttarsi in mare non è nemmeno più vietato, sarebbe semplicemente da folli farlo. Lui ripensa a quel luogo tanto tempo fa, quando ci andava in vacanza. Tossisce.
Lei appoggia il mento al suo braccio e lo guarda mestamente, con i suoi occhi neri.
«Fra quanto saranno qui?»
Lui lo sa, fin troppo bene lo sa, ma non vuole spaventarla. Lo è già abbastanza.
«Non lo so. Fra un po’. Forse c’è ancora un po’ di tempo»
Dalle loro spalle arriva una folata di vento: ormai l’odore del gas non lo sentono quasi più. Lei si gira alzando il bavero del cappotto consunto. Dietro di loro i piloni dell’autostrada si stagliano contro il cielo plumbeo. Dalla strada sopra non proviene alcun rumore.
«Vorrei averti conosciuto prima», le confessa.
«Quando c’era il Tempo. O anche solo per stare ancora un po’ qui a guardare il mare, quando c’era ancora il sole».
Lei arrossisce e gli prende la mano.
«Mi dispiace». Gli dà un bacio sulla guancia e si alza. È ora di andare.
Lui la segue con lo sguardo per l’ultima volta. Lei però non lo sa.
«Quindi non rischi proprio?», lo sorprende, girandosi e indicando il mare.
«Forse alla Fine. Capirò quando è il momento. Almeno credo».
Un sorriso splendente. L’unica cosa bella che è rimasta.

La Sirena suona alle 15.23.
Lui è ancora seduto lì. Sta aspettando.
Gli alberi del piccolo bosco dietro la spiaggia cominciano a muoversi. Chiude gli occhi per un momento e poi si alza. Ha le gambe indolenzite.
Comincia a spogliarsi e il freddo gli punge la pelle bianca. Sente il loro vociare, i passi pesanti. Sotto ai piedi, la sabbia fredda. La sabbia non dovrebbe mai essere fredda, pensa. Tocca con la punta delle dita l’acqua calda, quasi bollente, come la doccia che gli piaceva fare d’inverno.
Si immerge piano piano, e sente di essere osservato. Quando arriva all’altezza del bacino si ferma. Sorride per un attimo, ricordando quando da bambino, arrivato a quel punto, gli scappava sempre la pipì. Allora si volta e li vede. Sono in fila sulla spiaggia, di fianco ai suoi vestiti. Lo guardano incuriositi e straniti per la sua scelta.
Comincia a sentire le prime fitte ai muscoli delle gambe. Fa un bel respiro e fa ancora quattro passi indietro. Riesce a contare le figure sulla spiaggia: sono trenta. Mentre l’acqua gli raggiunge il collo, poi il mento e infine gli occhi, pensa per un momento che sarebbe bello stringerle la mano adesso.
In lontananza, strilla un gabbiano.
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