Il ghiaccio cadde dentro al bicchiere con il suo classico tintinnio.
Il Pacifico era come al solito affollato, e James stava pensando a quanto gli sarebbe piaciuto essere sulla sua branda in veranda a dormire, quando lei entrò nel bar.
Non la notò subito perché stava aiutando Robertson ad andare in bagno: probabilmente a vomitare l’anima, ma magari con un po’ di fortuna non lo avrebbe fatto. L’ultima volta James avrebbe voluto chiamare un esorcista.
La vide meglio quando si risistemò dietro al bancone, dando un occhio ai suoi clienti: molti erano sempre gli stessi, altri si vedevano qualche volta, alcuni erano nuovi. Tra cui la ragazza, che ora lo stava guardando. Lui accennò un sorriso, poi tornò a pulire il ruvido legno del bancone.
«Mi fai un gin tonic?»
Quando lui rialzò la testa, i suoi occhi annegarono in quelli di lei.
«Certo, arriva subito»
Cominciò così, con l’alcol. Poi arrivarono i sogni. Infine, i rimpianti.
«Come mai “Pacifico”?»
«È una lunga storia»
«Sentiamo. Ho tempo»
Erano rimasti in pochi nel bar, l’ora era tarda e si avvicinava la chiusura. Kate tornava spesso. A volte con amici, a volte con la sua migliore amica, a volte con tutti più il fidanzato.
«Bhe, è sempre stato il mio sogno. Vivere su un’isola del Pacifico. Sole, sempre estate, l’oceano. Volevo aprire un bar. Poi l’ho aperto qui. Strana la vita, eh?»
Entrambi guardarono fuori dalla finestra come se fosse un riflesso incondizionato. Lui si grattò il naso, lei sospirò.
«E allora sentiamo, dove precisamente ti sarebbe piaciuto vivere?»
«Alle Hawaii. Conosci?»
Lei finì il suo gin tonic.
«Ne ho sentito parlare.»
Lui si mise a ridire e la prese in giro. Lei fece finta di offendersi. Succedeva sempre così. Quando lei se ne andò, qualche minuto dopo, fu la volta di James sospirare.
Quando si videro qualche sera dopo, James si prese un momento per illustrarle le Hawaii. I tablet funzionavano ancora, nonostante la grave crisi che aveva colpito la Colonia qualche mese prima. Il suo era ormai malconcio, ma con il proiettore in 7k riusciva ancora a fare la sua figura.
La portò in fondo al locale, che ormai si stava svuotando, dove una parete bianca si colorò con i toni accesi di Oahu.
«E questa era Honolulu, la capitale», le disse, mostrandole una veduta area della città. «Una volta erano così, le città. Io ero piccolo, non so se tu sei riuscita mai a vederne una intera»
Lei scosse la testa, rimanendo con gli occhi fissi sul muro. Poi fu la volta delle spiagge, del blu, dei pesci, della vegetazione.
«Ecco, qui la polvere non c’era», disse lui sarcastico.
«Scemo»
La lezione finì, era di nuovo tardi; è sempre tardi quando meno ce lo aspettiamo. Quello non era mai cambiato e probabilmente non sarebbe cambiato mai.
La accompagnò all’ingresso, fuori c’era qualcuno che la aspettava con il motore acceso.
«È un tipo fortunato», disse James indicando l’esterno.
«Ti piace la sua macchina?»
Lui sorrise e non disse niente. L’innocenza e il pudore che Kate dimostrava ma che non aveva era totalmente disarmante. E tremendamente attraente.
Passarono i giorni. Le settimane. I mesi.
Una sera rimasero solo loro due, talmente si era fatto tardi. Stavano parlando di viaggi, di vecchi posti che probabilmente non avrebbero mai visto, tantomeno assieme. Con il proiettore viaggiarono dal Sudafrica ai fiordi norvegesi, passando per Central Park e la Foresta Amazzonica.
«Oddio, guarda l’ora!», disse Kate indicando il vecchio orologio da polso, probabilmente ereditato dalla sua bisnonna. «Ti aiuto a pulire»
Si divertirono anche a fare quello. Fu quando stavano scherzando con il moccio che si avvicinarono. Forse troppo. Lui le sistemò i capelli e pensò che si meritasse quel momento, per tutta la vita aveva aspettato una situazione del genere, una donna così. Ma non pensiamo tutti di meritare qualcosa di meglio? Per lei sarebbe stato meglio? Per il loro futuro, quello di tutti gli altri? Era giusto abbandonarsi a quell’atto di puro egoismo?
Tutto questo passò nella mente di James in un nanosecondo, e lei già stava ridendo ritirandogli il moccio addosso. Finirono di pulire e lei se ne andò, guardandolo mentre scivolava nell’innaturale luce artificiale che illuminava il parcheggio, con quello sguardo che lo faceva sentire in paradiso e all’inferno nello stesso momento.
Quando richiuse la porta, per poco non gli venne un infarto vedendo un’ombra sul fondo del locale venirgli incontro barcollando.
«Dio mio, Robertson, da quanto sei qui?!»
«Mmmmh… credo di… di essere svenuto un attimo…»
Lo prese sottobraccio e lo accompagnò all’uscita.
«È molto bella, eh?», chiese l’ubriacone al padrone del bar.
«Se te ne sei accorto anche tu in queste condizioni, direi proprio di sì»
Lo lasciò giù dai gradini dell’ingresso, dandogli due pacche sulle spalle. Stava risalendo nel locale, quando la voce di Robertson ruppe il sinistro silenzio della notte.
«I sogni sono soltanto sogni, vecchio mio»
James si bloccò e si girò verso il suo cliente più affezionato.
«E che cosa vorrebbe dire?»
Robertson sorrise come non faceva da tempo.
«Non lo so», disse con un filo di voce, prima di scomparire nelle tenebre.
«Cos’è quella faccia?»
Robertson lo interrogò da dietro il bancone. Erano passati mesi ed era arrivato l’anniversario del Giorno dell’Arrivo. Andrew Albert Robertson lo stava festeggiando al bar, in giacca e cravatta, pettinato e con la Stella sul petto. Era stato uno dei primi ad arrivare, più di cinquant’anni prima.
«Ah… se n’è andata, vero?»
Quello era l’unico giorno in cui Robertson non beveva. Una volta, qualche anno prima, James gli aveva chiesto come mai bevesse come una spugna per trecentosessantaquattro giorni all’anno (almeno, del vecchio calendario) e non lo facesse mai nel Giorno dell’Arrivo. Il Giorno dell’Arrivo è l’unico momento che non voglio dimenticare, gli aveva risposto. Fine della discussione.
«Fa parte del Programma Due? Quello per le coppie?»
James posò il boccale che stava asciugando.
«L’acqua tonica ti fa bene, a quanto vedo. Il tuo sesto senso fa scintille»
«Mi dispiace, vecchio mio», disse alzando il bicchiere di tonica, facendo brindisi con qualcuno di invisibile.
Il Programma Due prevedeva un Viaggio ogni due anni per coppie al di sotto dei trent’anni. Se eri più vecchio o da solo, ti toccava rimanere lì.
«È passata a salutarti, almeno?»
James chiuse gli occhi e fece un bel respiro.
«Sì, è passata»
«E…»
«E niente, Robertson, ci siamo salutati come due persone normali. Era commossa, ma lo sarei stato anche io al posto suo. Guarda dov’è andata», disse indicando il cielo blu fuori dall’ampia finestra del locale. Evitò di sottolineare come non si sarebbe mai dimenticato il modo in cui Kate lo guardò prima di uscire dalla porta, per sempre.
«Ok, scusa se ho toccato un nervo scoperto, vecchio mio. E chiamami Andy, da quanto ci conosciamo?»
«Hai ragione, Andy». Gli sorrise e gli strinse lievemente una spalla. Uscì dal Pacifico cercando una boccata d’aria. La leggera brezza alimentata dai giganteschi ventilatori posizionati sulla cupola gli scompigliarono i capelli. Stette lì nel patio per un po’ a guardare in cielo, quell’enorme palla verde-azzurra che li guardava trecentottantaquattro mila chilometri più in là. Pensò a Kate e a dove avesse deciso di andare a vivere, provando a risollevare le sorti di un intero pianeta quasi inabitabile. Forse tornerà, pensò in un impeto di egoismo che poco dopo si vergognò di avere provato.
I passi pesanti di Robertson si avvicinarono, fino a fermarsi di fianco a lui.
«È bellissima, vecchio mio, non è vero?»
James ebbe un deja-vu, ma non ci fece caso.
«Già»
«Pensi che la rivedrai mai?»
James pensò al blu intenso delle Hawaii e ai grandi occhi di Kate che vi si riflettevano dentro.
«Non lo so», rispose con mezzo sorriso.
Fuori dalla cupola, la polvere lunare vi si infiltrava piano ma senza sosta, un granello alla volta.